08/09/14

Attualità (2013)



Perché non si perda il ricordo di don Serafino
Sono già trascorsi dodici anni dalla morte di DON SERAFINO CHIAPUSSO e non vogliamo si perda il ricordo di questo sacerdote umile e zelante che ha dedicato tutta la sua vita e la sua missione a Bardonecchia. Era nato a Novalesa il 4 maggio 1923. La famiglia era modesta.
Il papà Achille era cantoniere stradale, la mamma Luigia Lambert casalinga e c’era pure una sorella, Adele. La vecchia casa di Vicolo Costamerlino era piccola e angusta, al limite della povertà, ma la vita era serena, nelle tradizioni del paese, con il soggiorno estivo alla baita della “Fraita” dove il piccolo Serafino pascolava la capretta, unica ricchezza della famiglia.
Il Seminario di Susa lo accolse al termine delle scuole elementari, inviato dal Parroco don Antonio Isolato che aveva visto nel piccolo Serafino, fanciullo semplice e devoto, i segni della vocazione al Sacerdozio. Trascorsero gli anni della preparazione nei vari corsi: medie, ginnasio, liceo, teologia, segnati anche dagli eventi della guerra, e finalmente il 27 giugno 1947 il  vescovo Mons. Umberto Ugliengo lo ordinava sacerdote.
Alla fine dell’estate, come era consuetudine allora in cui le vocazioni erano ancora numerose, il Vescovo lo designava Viceparroco a Bardonecchia, accanto al Parroco mons. Francesco Bellando: a Bardonecchia rimarrà tutta la vita e mons. Bellando sarà per lui un padre e un maestro, instillandogli nell’animo l’amore per la liturgia e il bello. Ricordo i primi approcci di don Serafino con i giovani della parrocchia: timido e riservato, ma zelante e aperto all’amicizia, disponibile all’aiuto anche nelle ripetizioni delle materie scolastiche.
Iniziava così il suo ministero in vari campi: la parrocchia, l’oratorio, la scuola che lo vedrà insegnante di religione per tanti anni, la cantoria con l’organista prof.ssa Nuccia Mariani e le impeccabili esecuzioni delle Messe a più voci, soprattutto del Perosi.
In quegli anni ci fu la celebrazione degli 80 anni della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica) nel 1948 e don Serafino accompagnò un gruppo di Bardonecchia nella Capitale per delle giornate indimenticabili, con l’angelica figura di Pio XII, con la figura carismatica di Carlo Carretto, Presidente Nazionale dei giovani, legato alla nostra Valle, e migliaia di giovani: i “baschi verdi”.
Nel 1950 altro pellegrinaggio a Roma, in occasione del Giubileo dell’Anno Santo, sempre con la guida impareggiabile di mons. Bellando  che aveva conoscenza e amore per la Città Eterna e così anche don Serafino imparò a conoscere la Capitale nei suoi grandi monumenti e anche negli scorci più nascosti e significativi della vita e del carattere popolare.

Ingresso di don Serafino a Rochemolles.
Nel 1954 il Vescovo Mons. Giuseppe Garneri lo nominava Parroco di Rochemolles: fu quasi un fulmine a ciel sereno... Gli aveva detto: «Voglio promuoverlo... mettergli una mozzetta sulle spalle», ma non si trattava solo di un onore bensì di tanti problemi che don Serafino affrontò con la determinazione silenziosa e fattiva che lo distingueva.
Fece il suo ingresso solenne a Rochemolles, che allora contava più di un centinaio di residenti, con l’accoglienza al ponte e il corteo verso la chiesa dalla via del “portico” al canto del Benedictus. Una foto ritrae visivamente l’evento, nell’atrio della chiesa con mons. Bellando, don Luigi Garcin, le associazioni con bandiere e tanta gente.
Iniziava così un ministero che doveva durare 7 anni, con il problema di unire insieme alla parrocchia l’incarico di Viceparroco a Bardonecchia. Si trattava tra l’altro di risolvere il problema della mobilità... Don Serafino non aveva imparato ad andare in bicicletta e quando un gruppo di signore gli regalò una “Vespa” fece qualche tentativo per imparare, ma si perse subito d’animo e abbandonò l’impresa. C’erano persone buone che lo portavano in automobile, ma ben più sovente faceva la strada a piedi (10 chilometri tra andata e ritorno ) resi più difficili nella stagione invernale quando sulla strada passava il “radò” trainato dai muli e tracciava solo una pista sulla strada stessa.
Furono anni di sacrificio ma anche di impegno pastorale per quella parrocchia che imparò ad amare, contrassegnati da opere e iniziative fattive: il restauro della chiesa riportata alla purezza delle sue linee primitive, il decoro delle sacre funzioni, il ritorno di tradizioni antiche come le “rogazioni” tenute ogni anno nelle varie parti del paese, secondo la rotazione delle semine.

Chiesa di Maria Ausiliatrice in una foto degli anni ’40.

Evento impegnativo furono in quegli anni le Sacre Missioni, predicate con vero zelo apostolico dal Padre Berruti, dei Gesuiti, Vescovo missionario che aveva rinunciato ai segni della dignità episcopale e con grande umiltà e fervore predicava la Parola di Dio. Fu un rifiorire di vita cristiana in una piccola comunità che era stata un po’ abbandonata negli anni precedenti, e la mamma Luigia trascorreva lunghi periodi nella casa parrocchiale, che don Serafino aveva resa più accogliente con molti lavori e sacrifici personali, legando bene con le donne della frazione.
Gli anni trascorsero veloci e quando, il mattino del 26 giugno 1960, celebrava la sua ultima Messa come Parroco e dava il suo saluto alla comunità, molti avevano le lacrime agli occhi.
Il Vescovo infatti lo aveva nominato Rettore della chiesa di Maria Ausiliatrice in Bardonecchia, in sostituzione del can. Alfonso Fontan, e avrebbe portato in questa nuova missione lo stesso impegno che aveva contrassegnato le altre: zelo per la casa di Dio, il suo decoro, la bellezza delle sacre funzioni, la cura dei paramenti sacri, dei fiori che sapeva disporre con tanta cura e proprietà.
In quegli anni a Maria Ausiliatrice sorse un laboratorio sacro: varie donne si dedicavano alla cura, al restauro e al confezionamento di paramenti sacri e don Serafino era l’anima dell’iniziativa con i suoi consigli a la progettazione di nuovi paramenti per la Messa, allora che si iniziavano ad usare le “casule” al posto delle vecchie “pianete”.
Ogni iniziativa era in perfetto accordo con la parrocchia, a cui Maria Ausiliatrice era legata come Succursale, e alla parrocchia don Serafino non mancava di dare ancora il suo aiuto in varie incombenze, soprattutto nella direzione della Cantoria. Nel 1982 mancava, quasi improvvisamente, la mamma Luigia che aveva condiviso con il figlio gli anni di Rochemolles e poi all’Ausiliatrice.
Col passare degli anni anche la sua salute divenne più precaria, dovette man mano ridurre gli impegni, sottoporsi a cure varie e così il nuovo Vescovo di Susa Mons. Alfonso Badini Confalonieri, nel 2002 decise di sollevarlo dall’incarico di Rettore di Maria Ausiliatrice, nominando al suo posto mons. Luciano Vindrola. Accettò questo sacrificio come sempre in silenzio, raramente lasciando trasparire la sofferenza del suo spirito.
Gli ultimi mesi di quell’anno furono un lento e progressivo peggiorare delle sue condizioni, sempre sereno e lodevolmente assistito, soprattutto dalla sig.na Liliana Garipoli, fino alla notte del 27 dicembre quando chiudeva gli occhi.
Il funerale fu dimostrazione dell’amore di Bardonecchia per questo sacerdote, nella partecipazione numerosa e sentita, presieduto da Mons. Vescovo e con una ventina di sacerdoti concelebranti: in ossequio alle sue volontà la Cantoria eseguì, tra l’altro, le Esequie del Perosi che tante volte aveva diretto. Un corteo di automobili lo accompagnò poi fino a Novalesa, dove riposa accanto alla mamma.
Una pagina di storia di Bardonecchia che in quel giorno si à conclusa, ma che non deve cadere nell’oblio: 55 anni di fedeltà e di servizio a Bardonecchia sono per lui titolo di gloria in Cielo, ma devono essere per noi segno di un ricordo grato e orante.
don Gian Paolo Di Pascale

Mons. Claudio Iovine nominato Prevosto di Condove

Ebbi il piacere di conoscere don Claudio intorno agli anni ’70. Frequentavo, infatti, la Parrocchia di S. Ippolito da quando, studente universitario, venivo con la mia famiglia in villeggiatura a Bardonecchia e, in quel periodo, conobbi altri giovani che, nel tempo, sarebbero diventati sacerdoti: don Alfonso Badini Confalonieri, destinato a diventare Vescovo di Susa, e don Alberto Pecheux, purtroppo già mancato; tutti calamitati dal fervore e dallo stile sacerdotale del Parroco mons. Bellando.
Passarono gli anni e, io iniziai la mia professione di insegnante presso l’Istituto Enologico di Alba, mentre loro si avviarono nel cammino verso il Sacerdozio. Don Claudio andò a studiare al Collegio San Tommaso frequentando i corsi di  teologia dell’Angelicum a Roma, dove insegnava il Domenicano padre Spiazzi, amico di Bardonecchia dove è venuto per un trentennio.
Venne ordinato sacerdote da Papa Giovanni Paolo II nella Patriarcale Basilica di San Pietro il 12 giugno 1983. Da Bardonecchia, guidati da mons. Bellando, ci furono un centinaio di persone presenti alla stupenda celebrazione e ai festeggiamenti dei giorni successivi.
Il Vescovo lo destinò Viceparroco a S. Ambrogio, ma già l’anno successivo tornò a Roma per completare gli studi. In seguito, dal 1986 al 1991, collaborò con don Silvio Bertolo come Viceparroco di Condove, assumendo contemporaneamente anche la nomina di Parroco a Mocchie. Lasciati questi incarichi pastorali, nel 1993 diventò Pievano di Rubiana, facendosi apprezzare per le tante iniziative e per lo zelo sacerdotale. È stato anche Assistente Diocesano dei giovani di Azione Cattolica per dieci anni.
Nel periodo trascorso a Roma aveva lasciato traccia di sé e, alla fine dell’anno 1997, il Cardinale Bovone, che era originario di Alessandria, Prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, lo volle come suo segretario particolare. Un ufficio che confermò anche successivamente il Cardinale Saraiva Martins. Fu in quel periodo che ricevette la nomina a Monsignore e, per i suoi meriti e le capacità, dall’anno 2011 fu nominato Vice Promotore della Fede e, recentemente, nel febbraio 2013, il Papa Benedetto XVI lo promosse “Relatore”, un incarico delicato e prestigioso.
Il suo animo, che pur contemplava e ammirava quotidianamente il Cupolone di San Pietro, restava, tuttavia, fortemente attaccato alle montagne della sua Valle. Un forte richiamo interiore, divenuto sempre più forte e intenso lo spingeva a vivere il suo Sacerdozio, come Parroco, a contatto diretto con le anime. Per questo, don Claudio, non ha esitato un istante quando, al termine dell’estate 2013, il Vescovo di Susa gli ha proposto di lasciare Roma, il Vaticano, per assumere l’incarico di Prevosto di Condove. Lo dirà lui stesso, con entusiasmo, nel corso del saluto rivolto ai parrocchiani nel giorno dell’ingresso sabato 26 ottobre: «... fino ad ora cercavo i Santi nelle carte, nelle testimonianze processuali, nei documenti, nelle prove; ora sono mandato a cercarli qui, sul campo. Prima stavo con i “santi di carta”, ora vengo inviato ai “santi in carne e ossa”, per così dire, che siete voi, carissimi e amati parrocchiani di Condove, Mocchie, Frassinere e Maffiotto ...».
Il Cardinale Amato, attuale Prefetto della Congregazione, con rammarico, in considerazione delle capacità e dell’esperienza di don Claudio, dopo 16 anni e 10 mesi di permanenza a Roma, acconsente al suo ritorno nella Diocesi di Susa.
La Parrocchia di S. Pietro in Vincoli di Condove venne istituita nell’anno 1717 e don Claudio è il 12º Prevosto. In pari tempo dovrà occuparsi anche delle Parrocchie di Mocchie, Frassinere e Maffiotto con le loro 75 frazioni montane.
Don Claudio sulla sede in presbiterio.
Al rito di ingresso, assieme ad altri numerosi sacerdoti, sono presenti anche don Franco Tonda, don Paolo Di Pascale, don Silvio Bertolo e don Mario Ruatta, Parroco di Cavour, paese di origine – da parte materna – di don Claudio. Di lui, dirà pubblicamente il neo-Prevosto: «...ho imparato l’impegno verso la gioventù ... da lui avevo appreso l’iniziativa denominata O.R.O. che sta per Operazione Rilancio Oratori...».
Nelle parole, pronunciate al termine della Messa, nella chiesa gremita di fedeli, con il Vicesindaco dott. Emiliano Leccese, innumerevoli labari e gagliardetti appartenenti a tutte le Associazioni religiose e civili di Condove, don Claudio ha avuto un pensiero speciale e riconoscente per mons. Bellando, che aveva coltivato la sua vocazione, ed anche per don Luigi Crepaldi, per «la sua finezza liturgica che ci ricorda che esiste una “ars celebrandi” che noi sacerdoti dobbiamo coltivare perché le nostre celebrazioni non diventino degli shows...».

Il saluto del Vicesindaco, dott. Emanuele Leccese.
Un saluto particolare lo riserva per le Suore di Casa Teresa Grillo Michel giunte da Roma, dove aveva svolto l’incarico di Cappellano della Casa di Riposo da loro diretta.
Un sontuoso ricevimento ha concluso la giornata in un clima di fraternità ed amicizia.
Don Claudio ha poi proseguito il suo colloquio con i nuovi parrocchiani nell’omelia della domenica, citando, tra gli altri, il Beato Giovanni Paolo II, il Beato sacerdote Cura Brocero, “il Curato d’Ars dell’Argentina”, che incentrò la sua azione pastorale nella preghiera, nella celebrazione della Messa, nell’Adorazione Eucaristica, nelle Confessioni, negli Esercizi Spirituali ed anche il S. Giuseppe Benedetto Cottolengo con la sua nota giaculatoria: «Vergine Maria Madre di Gesù fateci Santi».
In questa espressione è riassunta la missione di ogni Parroco posto a servizio del gregge: «fare i santi in carne e ossa».
Marco Rissone

Don Claudio torna in Valle dopo quindici anni

Sacerdote dall’anno 1983, dopo i primi anni di ministero in Diocesi, era stato chiamato a Roma dove, da oltre quindici anni, divenuto monsignore, era impegnato presso la Congregazione per le Cause dei Santi. Mentre l’estate 2013 volgeva al termine, trovandosi la Parrocchia di Condove vacante, il Vescovo propose a don Claudio di diventare lui Prevosto di San Pietro in Vincoli. Con ammirevole disponibilità subito rispose:
«È da qualche tempo che pensavo di tornare a fare il Parroco e a vivere di nuovo a servizio del gregge di Dio».
Offerta questa sua disponibilità, torna a Roma per un paio di mesi per chiudere varie pratiche di Beatificazione, trovando il dispiacere per questa sua scelta da parte dei Superiori del Dicastero. «Erano contrari e mi dissero che se avessi cambiato parere mi avrebbero trattenuto a Roma, ma sentivo in me questa chiamata a tornare di nuovo “pescatore di uomini”», afferma don Claudio, e conclude: «Mi hanno permesso di rientrare in considerazione della situazione di crisi di sacerdoti in Diocesi e per il mio desiderio». L’ultima Beatificazione è stata quella del Seminarista 14enne Rolando Rivi di Modena, a inizio ottobre. La domenica seguente saluta le Suore di Casa Teresa Grillo Michel e le ospiti del Pensionato di cui è stato in questi anni Cappellano.
Fa ingresso a Condove nel pomeriggio di sabato 26 ottobre, accolto dal Vescovo, da numerosi sacerdoti, da tanti amici, associazioni, numerosissimi fedeli, da ex parrocchiani di Rubiana, dell’Alta Valle e da una rappresentanza di Cavour, dove vi sono i suoi parenti da parte di mamma.
«Dio non abbandona mai il suo popolo – dice don Claudio rivolgendosi per la prima volta ai nuovi parrocchiani – oggi per me è una sorpresa stare fra voi, e voi lo siete per me... il Beato Giovanni XXIII ci ricorda che la Chiesa non è un museo da conservare, ma un giardino da coltivare... negli anni passati a Roma ho avuto la grazia di lavorare in una parte scelta di questo giardino, di conoscere la vita dei Santi che sono già in Paradiso... adesso sono con voi a lavorare in un’altra parte dello stesso giardino, per fare crescere la santità qui, sul campo».
Ricorda inoltre che una raccomandazione di Papa Francesco è che le chiese restino aperte e questa è un’altra preoccupazione del Parroco: «Vorrei allestire una piccola Cappella da lasciare sempre accessibile per la preghiera personale davanti al Tabernacolo».
Si è rivelata una giornata importante anche per l’Alta Valle, soprattutto da Bardonecchia, Melezet e Savoulx sono arrivate tante persone al suo ingresso parrocchiale, stringendosi accanto per un augurio sincero. Numerosi fedeli e giovani sono venuti anche da S. Ambrogio e Rubiana, rimasti fortunatamente legati a don Claudio.
Danilo Calonghi

I Frati a Bardonecchia

l Convento “San Francesco” di Bardonecchia venne fondato nel 1936 per volontà della signora Margherita Bono sul terreno donato dal Cav. Luigi Visetti con la consorte Teresa. L’impresa Visetti ne curò la costruzione. Tra i primi Padri ricordiamo p. Celestino Gennaro, p. Fedele Provera e p. Ruggero Cipolla. Al Convento è annessa una Cappella dedicata a San Francesco d’Assisi con opere di scultura di p. Davide Formiglia.
Per lo sviluppo della zona, un tempo solo pineta, è stata costruita una nuova chiesa nel 1976 su progetto dell’ing. Groppi. È in stile moderno e armonizza bene l’ambiente che l’accoglie: nell’entrata é la suggestiva fontana bronzea dedicata a S. Francesco e il lupo. Il piccolo campanile in stile cinese è pure opera di p. Davide.
Nei giorni 1-5 aprile 2013 si è svolto presso la Casa S. Francesco il Capitolo Provinciale dei Frati Minori del Piemonte. È un momento di comunione e confronto, di verifica del cammino percorso e di progettazione del futuro. In questa riunione sono anche eletti i frati chiamati a condurre la vita e missione della Provincia. Sotto la presidenza di fra Bruno Miele, delegato del Ministro Generale dell’Ordine, sono stati scelti: fra Maggiorino Stoppa (Ministro Provinciale), fra Fedele Pradella (Vicario), e come consiglieri: fra Giuliano Selti, fra Mauro Zella, fra Gabriele Cadorin Romano e fra Francesco Pasero.
La presenza del Capitolo Generale a Bardonecchia è, senza dubbio, da considerarsi un segno di vitalità del Convento e nessuno poteva prevedere che di lì a pochi mesi, appena conclusa la stagione estiva, potessero cambiare così radicalmente le cose. La già esile presenza, saltuaria, per il servizio religioso festivo e nei periodi di turismo data da p. Mauro Zella, con la fine del mese di agosto 2013 è rimasta sospesa. Padre Mauro, infatti, ha dovuto trasferirsi al Convento del Monte Mesma, come superiore di quella comunità di frati, e Bardonecchia, non ha più potuto avere, dopo di lui, nessun frate per questo Convento.
I Padri Capitolari riuniti a Bardonecchia: nella seconda fila, in centro, è fr. Maggiorino Stoppa eletto nuovo Provinciale dei Frati Minori del Piemonte. [foto Archivio]
Come stanno, dunque, le cose?
A raccontarci della chiusura – si spera momentanea – del Convento sono fra Mauro e fra Maggiorino: «Casa San Francesco è attualmente chiusa. La struttura è stata data in gestione alla cooperativa”Liberi tutti”. Purtroppo non è stato possibile gestire nemmeno part-time la parte pastorale, quindi restano sospese le Messe e tutte le funzioni religiose».
Continua fra Mauro: «... Amo Bardonecchia come molti dei frati della mia comunità, ma ho dovuto sospendere il mio servizio perché sono stato trasferito sul Lago d’Orta. Per ora è tutto nelle mani dei nuovi Gestori ma conserviamo il desiderio di potere, un giorno, tornare anche noi».
La chiusura del Convento ci rattrista molto. Preghiamo perché al più presto possa tornare ad essere vivo!

La chiesetta dei Frati a Bardonecchia

I “nostri” frati, ci hanno lasciato. Temporaneamente.
Nella speranza di un loro prossimo ritorno, ripercorriamo un po’ la storia della loro presenza.
La presenza di una fraternità di Frati Minori nel nostro Convento è stata ininterrotta dal 1936 al 2006. Settant’anni che in modo diverso, hanno segnato la storia della parte di Bardonecchia più vicina a Campo Smith. La chiesa è stata frequentata soprattutto da affezionati villeggianti “stanziali”, e ha offerto un luogo di preghiera tranquillo e accogliente nella parte del paese più lontana dalla Parrocchia di Sant’Ippolito. L’orario delle Messe e delle celebrazioni è stato sempre attento alle necessità degli sciatori e a tutti gli sportivi che giungevano con il treno della neve. Nel tragitto dalla stazione a Campo Smith, erano tanti quelli che si fermavano qui per una sosta di preghiera a quel Creatore, che poi avrebbero celebrato nella natura.
Da bambina ricordo il passaggio, nell’andare a scuola, di fronte al Convento dei Frati e ammiravo sempre l’affresco del lupo di Gubbio, di cui ogni volta mi piaceva farmi raccontare la storia. Negli anni l’affresco si era molto sbiadito, e il recente restauro l’ha riportato all’antico splendore.

Il Convento francescano di Viale della Vittoria. [foto Archivio]

Il Convento era stato edificato subito dopo la costruzione della Colonia Medail, come luogo di vacanza e di studio estivo per i novizi dell’Ordine dei Frati Minori, allora molto numerosi. Dato poi il clima particolarmente favorevole, anche i frati con qualche acciacco vi trovavano, con il riposo, tutti i benefici dell’aria buona di montagna.
Il luogo di preghiera era la piccola Cappella che si trova al pian terreno, nella zona più a ovest dell’edificio. Negli anni, per il sempre maggiore afflusso di turisti verso i campi di sci, non era più sufficiente; così per iniziativa di p. Marcello fu costruito il nuovo edificio.
 L’inaugurazione della nuova chiesa, così come la conosciamo oggi, è avvenuta nel 1975. È uno spazio sacro moderno e accogliente, protetto dal grande crocifisso ligneo della Val Gardena che definisce l’ambiente di montagna.
Già dall’anno 2006 il Convento non è più stato abitato da una fraternità stabile, seppure minima, di frati. La Famiglia Francescana provinciale piemontese – colpita tra l’altro anche nella comunità di Belmonte nel 2008 dai noti fatti di cronaca che ne hanno ulteriormente aggravato la situazione numerica – era però riuscita ad assicurare le celebrazioni festive e l’apertura della casa nei mesi estivi, a Natale e Pasqua nella casa di Bardonecchia. Anche per la festa di San Francesco la celebrazione coinvolgeva la comunità di Bardonecchia con solennità e amicizia. Per tutto questo periodo l’accoglienza dei gruppi e dei singoli era proseguita anche con il sostegno di volontari che, per quanto possibile aiutavano nel gravoso compito fra Mauro che “francescanamente” svolgeva, in questi anni, anche un impegno parrocchiale in città nei giorni feriali.
Ora, con la fine dell’estate la chiesa di San Francesco ha le porte chiuse. La Casa di ospitalità sarà prossimamente gestita da una cooperativa, che proseguirà nell’accoglienza dei gruppi e dei singoli che ricerchino un’oasi di pace e di spiritualità. Ad oggi (inizio di dicembre) non è possibile fare previsione a riguardo delle celebrazioni per i mesi futuri.
Le vocazioni alla vita religiosa per i Frati Minori sono molto esigue e la prospettiva sarà, per l’Ordine Francescano dei Minori, una unificazione delle Provincie del Nord Italia nel 2016. Ma i Frati della Provincia piemontese sono molto legati alla casa di Bardonecchia e sperano che in futuro sia loro consentito tornare a vivere pienamente nel Convento della nostra città.
Anna Maria Bellet

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E’ nella famiglia fondata sul matrimonio e aperta alla vita che la persona sperimenta la condivisione, il rispetto e l’amore gratuito, ricevendo al  tempo stesso, dal bambino al malato, all’anziano, la solidarietà che gli occorre. Ed è ancora la famiglia a costituire il principale e più incisivo luogo educativo della persona, attraverso i genitori che si mettono al servizio dei figli per aiutarli a trarre fuori il meglio di sé ... La famiglia, cellula originaria della società è pertanto radice che alimenta non solo la singola persona, ma anche le stesse basi della convivenza sociale
BENEDETTO XVI (22 settembre 2012)
(da: “I valori fondanti e l’etica per la società della globalizzazione”, di Antonino Giannone, Ed. Mazzanti VE)

La Cappella del Cimitero intitolata a Maria Regina del Cielo e della Terra

Nel pomeriggio di giovedì 22 agosto, memoria liturgica di Maria Regina, si è celebrato al Cimitero un rito, particolarmente suggestivo, per l’intitolazione della Cappella a Maria Regina del Cielo e della Terra, con l’inaugurazione della nuova statua in suo onore. La memoria odierna, di origine devozionale, fu istituita nel 1955 da Pio XII. Viene celebrata a pochi giorni dalla solennità dell’Assunzione. Maria, partecipe della gloriosa regalità universale del Cristo, è proposta come modello e segno di speranza per i cristiani, che già in virtù della dignità regale del Signore nel Battesimo, sono chiamati a regnare eternamente con lui. Ella è Regina perché eccelle su tutte le creature, in santità: «In lei s’aduna quantunque in creatura è di bontade», dice Dante nella Divina Commedia.
La regale statua della Madonna, con in capo la corona, era stata esposta in chiesa parrocchiale domenica 18 agosto ed oggi, all’arrivo dei fedeli al Cimitero, è collocata, di fronte alla grande croce, tra le tombe dei nostri cari. Tutti si ritrovano accanto a lei, come ci si pone accanto ad una madre, sentendo, quasi palpabile, la sua protezione, poi, al canto delle Litanie attinte dal Rito dell’incoronazione, si snoda una raccolta e devota processione, all’interno del Cimitero, passando accanto a ogni tomba, quasi a volere chiedere a Maria “portinaia del Paradiso”, secondo l’espressione del Curato d’Ars, di raccogliere le anime di tutti i defunti per condurle in Cielo.
Sono i familiari del compianto geom. Mario Rossetti a portare a spalle la statua in processione, in quanto il suo acquisto si è reso possibile usufruendo della cifra destinata in sua memoria da amici, conoscenti, colleghi e familiari, lo scorso anno, quando improvvisamente era mancato all’affetto dei suoi cari. (cfr. Bollettino 2012, pag. 147).
Si è trattato di un momento commovente e interiormente arricchente per la nostra vita di fede. Poi la statua, al canto del Magnificat, è collocata in Cappella, su elegante mensola, predisposta dalla falegnameria di Andrea Mainardi. «O Dio, che alla tua Chiesa pellegrina nella fede, hai dato in Maria Vergine, l’immagine della futura gloria, concedi ai tuoi fedeli, che ti presentano questa Icona, di poter sempre alzare gli occhi con fiducia verso di lei, fulgido modello di virtù, per tutto il popolo degli eletti».

«Maria Regina è proposta come modello e segno di speranza per i cristiani, che rivestiti della dignità regale del Signore nel Battesimo, sono chiamati a regnare eternamente con Lui». [foto G. Malavasi]

Nei giorni precedenti il sig. Michi Negro aveva voluto ripulire la facciata dell’edificio sacro e renderla maggiormente luminosa, applicando anche la targhetta, a lato della porta, che identifica il luogo: «Cappella del Cimitero dedicata a Maria Regina del Cielo e della terra». Le signore Erosia Sacco e Rita Simiand hanno provveduto, come sempre, alla pulizia della Cappella e le fioraie del “Tempietto” Stefania e Gianna Bianchi, hanno offerto la decorazione floreale per l’altare e per la portantina della Statua, usata durante la processione.
L’iniziativa ha riscontrato largo apprezzamento e, da oggi ogni anno, il giorno 22 agosto, celebreremo la festa della Cappella del Cimitero con la Messa di suffragio per tutti i fedeli defunti e le anime del Purgatorio in aggiunta alle Messe del primo lunedì di ogni mese celebrate da maggio a ottobre.
Per completezza di cronaca, desidero aggiungere che l’attuale Cimitero con la sua Cappella venne benedetto dal Parroco mons. Agostino Rousset nell’anno 1931, in sostituzione del precedente, che aveva spazio appena fuori l’abitato di Borgovecchio, non lontano dal ponte in cima a Via Medail. Con l’espansione del paese, giustamente, le autorità comunali dell’epoca avevano pensato di identificare un’area cimiteriale adatta ai nuovi tempi. Questo antico Cimitero sostituiva, a sua volta, l’uso della sepoltura dei defunti che, precedentemente, ovunque, anche a Bardonecchia, avveniva sia all’interno che immediatamente all’esterno e attorno alle chiese.


Si chiamava Ferruccio (1935-1982)

Eravamo fratelli. Abbiamo lavorato anche molti anni assieme e sono contento di non avere interrotto il nostro sodalizio che è durato tutta la vita.
Ci volevamo bene, operavamo nel settore dell’imprenditoria edile, ma cosa ricordo con più rimpianto, è la sua stretta di mano. Ci stringevamo la mano sovente, dopo un po’ di giorni che non ci si vedeva, in occasioni di accordo comune, o, anche solo per il piacere di rivedersi.
Me la ricordo anche adesso la sua stretta di mano, e sono già passati più di trent’anni! Sapeva di franchezza, di fiducia, di stima.
Credo che non la dimenticherò facilmente, anche perché mi succede raramente di sentirla trasmessa da altri, qualche volta un poco sì, anche se meno intensa.
Ma ora lasciamo Ferruccio, e torniamo a Bardonecchia.
Parrebbe che stia saltando di palo in frasca, ma non è così e adesso vedremo perché. Io l’ho sentita in questi giorni... Eravamo al Cimitero il 22 agosto, quella camminata in Processione, ora ci vedo molto meno, avevo paura d’inciampare nel percorso ed altre insofferenze, ma sono andato avanti. Seguivamo Lei, la Madre. Non c’erano incertezze. Chi lo direbbe?... Eppure!! Era Lei la “Maria Regina del Cielo e della Terra”. Ora è lì con tutti i “Nostri” che abbiamo salutato come si deve quel giorno. Senza contare il saluto del nostro Parroco che poi ho avuto il piacere di ringraziare, seguito da una moltitudine di parrocchiani.
Giuseppe Bernardi

Una memoria ritrovata: la Croce Processionale del 1442

La Croce Processionale in argento sbalzato, cesellato, inciso e parzialmente dorato, è un magnifico esempio di oreficeria tardo gotica, datata sull’impugnatura 1442 (il prof. Giuseppe Romano nell’articolo pubblicato nel catalogo “Valle di Susa dall’XI al XVIII sec.”, a pag. 5 propone la data del 1413, da una prima e sommaria indagine compiuta dopo il ritrovamento pareva databile 1432, mentre in fase di restauro è apparsa leggibile, sull’impugnatura, la data 1442, alla quale ora la Soprintendenza fa fede nei suoi documenti), assegnabile ad una bottega orafa franco-piemontese, è realizzata in argento, applicato con chiodi ad un’anima di legno.
I bracci, con incrocio potenziato da un elemento quadrangolare, hanno terminazioni polibole, con sferette a spicchi; il nodo è in rame dorato, con placche di smalto.
Le figure, realizzate a sbalzo e applicate sul fondo liscio, sono distribuite secondo l’iconografia tradizionale, con il Crocifisso a capo chino e i fianchi cinti posto all’incrocio dei bracci, tra l’Addolorata, a sinistra, e San Giovanni Evangelista, a destra, entrambi presenti a figura intera, in ginocchio in alto vi sono il Redentore e, in basso, il Cristo Risorto che esce dal sepolcro. Sul verso, al centro è raffigurato l’Agnus Dei, mentre nelle quattro terminazioni ci sono i simboli degli Evangelisti: l’aquila (Giovanni), il toro (Luca), il leone (Marco), l’angelo (Matteo), ciascuno recante un cartiglio col nome. Negli spazi liberi da figure, sono applicati elementi vegetali. Il nodo, coevo e probabilmente originale, è a sfera schiacciata con rilievi a losanghe, con sei placchette quadrangolari in smalto con figure, presumibilmente, riferentesi a San Giovanni Battista, Sant’Ippolito (figura di un martire), San Lorenzo, San Pietro, San Paolo e lo stemma dei Visconti de Bardonnéche (divenuto stemma della città).

La magnifica croce fresca di restauro, con sullo sfondo l’antico coro monastico e il Retable lucente del suo oro. [foto E. Boanelli]

La croce, rubata dalla parrocchiale di Bardonecchia nella notte del 26 marzo 1971, è stata rinvenuta – nel corso di una perquisizione effettuata dai Carabinieri del Nucleo per la tutela del Patrimonio Culturale di Roma – in una villa privata della Capitale nella primavera del 2012 e riconsegnata alla proprietà nel corso di una solenne celebrazione tenuta il 13 agosto del medesimo anno. Il restauro, effettuato nel mese di giugno 2013 dalla restauratrice Valeria Borgialli, è avvenuto sotto la direzione della Soprintendenza per i beni storici, artistici ed etnoantropologici del Piemonte, nella persona della dott.ssa Valeria Moratti e interamente patrocinato dalla “Fondazione Cav. Mario e Anna Magnetto”. In fase di restauro è apparso un sepolcreto ricavato nell’anima lignea, coperto da lamina d’argento, in prossimità del capo del Crocifisso, contenente un cartiglio ed un piccolo involto in seta gialla che contiene la Reliquia (non meglio identificata).
La preziosa croce, dal mese di gennaio al mese di marzo 2014, è stata esposta al Palazzo del Quirinale di Roma – residenza del Capo dello Stato – in una mostra di alto livello dal titolo “Una memoria ritrovata”, e inserita in un elegante catalogo d’arte.
Restaurata la Cappella delle Grazie in memoria di Elena Balestra Torta

Interno della Cappella Madonna delle Grazie
La Cappella della Madonna delle Grazie in Via Cavour, che è stata oggetto di tante cure nel corso degli anni, ha visto nella primavera scorsa dei notevoli interventi di restauro, divenendo, ora, elegante e ottimamente inserita nel contesto paesaggi stico. Circa l’origine storica della Cappella, invito a consultare il Bollettino Parrocchiale dello scorso anno 2012, in cui alle pagine 92-94 vi è un bell’articolo a firma del dott. Guido Ambrois.
Al fine, invece, di quanto desidero scrivere in questa paginetta, vorrei ricordare che, pur avendo in animo da vario tempo il desiderio di rendere più grazioso l’edificio, la decisione s’è presa quando i familiari della compianta signora Elena Balestra Torta – villeggiante affezionatissima di Bardonecchia – in sua memoria hanno espresso il desiderio di «fare qualcosa che restasse nel tempo».
La mia immediata proposta di porre lo sguardo sulla chiesetta di Cime d’la Viere è stata immediatamente accolta con entusiasmo.

La Cappella nella veste invernale. [foto G. Malavasi]

Questa prima generosa donazione, successivamente integrata attingendo alle disponibilità della chiesa in considerazione della notevole spesa prevista, ha permesso di dare l’avvio ai lavori: il nuovo tetto di lose come in origine, sostituendo le antiestetiche lamiere; le grondaie; la tinteggiatura esterna e interna; l’elettrificazione del lampadario alimentato da un pannello solare che permette  anche il funzionamento di due lampade votive poste ai lati della statua della Madonna, sono tra i lavori più evidenti.
Il progetto – presentato alla competente Soprintendenza e al Comune per le necessarie approvazioni – è opera dello Studio Arch. Mainardi, che si è avvalso della collaborazione dell’ing. Mauro Taragna e del geom. Massimiliano Vinassa per le parti di loro competenza.
L’impresa edile che ha compiuto i lavori è la Cogribe di Paolo Grimaldi. La decorazione è opera della Ditta Bruno Romanello. Le opere di falegnameria delle Ditte Paolo Avidano di Savoulx e Andrea Mainardi di Bardonecchia. La parte elettrica è stata compiuta con opera di volontariato da Angelo Balsamo.
Per un resoconto economico definitivo mancano ancora alcune fatture da porre in conteggio.
L’inaugurazione avvenuta nella mattinata di mercoledì 28 agosto ha registrato la presenza di numerosissimi fedeli, suscitando in loro parole di lode e di vivo apprezzamento per quanto compiuto.
La Madonna delle Grazie benedica Bardonecchia!
d.F.T.

I terreni della Cappella del Ciafau
«Inventaire des biens et revenues de la chappelle S.te Catherine des Chaffaux hameau de la parroisse de Bardonnéche, chappelle succursale dont Mons. le Curé de la parroisse est recteur né».
Così come le chiese, anche le Cappelle potevano possedere terreni i quali erano frutto di secolari lasciti testamentari per devozione o per adempiere ad un voto. Si trattava in genere di appezzamenti di superficie non estesa che venivano ceduti in affitto con pagamento in denaro o in natura (fieno, cereali, ecc.). Tali rendite, sottratte le imposte, servivano in genere per celebrare Messe, ma anche per la manutenzione della Cappella o per dotarla di ornamenti o arredi sacri. La gestione dei beni era affidata ad amministratori che potevano essere il Parroco o altri religiosi o varie figure di laici (procureurs, recteurs, ecc.).
Dai catasti possiamo ricavare una cronistoria dei beni immobili posseduti da ogni Cappella nelle varie epoche, catasti che riportano per ogni appezzamento il luogo, la qualità di coltura (prato, campo, ecc.), la superficie in misura locale e il reddito catastale. Sui vecchi catasti inoltre, per ogni terreno sono segnate le particelle confinanti (à bize, au lévant, à midi, au couchant, au pied, dessus, dessous) con i rispettivi proprietari. Ad esempio, da un inventario dei beni e redditi della Cappella con data 18 aprile 1729, risultavano i seguenti appezzamenti di terreno per una superficie totale di circa 11.700 metri quadri:
1) «une terre aux Traverses derrier les Chaffaux» di 64 tese, con rendita catastale di 4 denari e frazioni di denaro (la tesa di Bardonecchia corrisponde a 3,799 metri quadri);
2) «une terre en la Grangette dessus les Chaffaux» di 105 tese, gravata di 10 denari e 1/4 di pitte;
3) «un pré e terre en la Grangette» di 731 tese più una javidonnée di incolto, in estimo a 2 soldi, 6 denari e spiccioli;
4) «une terre a Pras Laurens» di 130 tese, in estimo a 7 denari e spiccioli;
5) «un pré aux Cellerieux» di 454 tese, in estimo a 8 denari e spiccioli;
6) «un pré aux Saignieres» di 170 tese, in estimo a 5 denari e spiccioli;
7) «un pré en Calamelin» di 1295 tese, in estimo a 2 soldi, 11 denari e spiccioli.
In un elenco dei fondi della Cappella del 1758 troviamo gli stessi appezzamenti con le superfici espresse in multipli di tese: la seterée (= 400 tese quadrate) e la javidonnée (= 25 t. q.). Ancora oggi i terreni conservano gli stessi toponimi di allora.
Le monete di riferimento sono il soldo (20 soldi = 1 lira), il denaro (12 per un soldo), l’obolo (2 per un denaro) e la pitte (2 per un obolo).
Alcuni decenni dopo, anno 1807 in periodo Napoleonico, tra le proprietà terriere della Cappella figurano altri tre appezzamenti a campo.
Tuttavia il numero dei terreni è ancora aumentato come risulta dall’inventario dei beni immobili appartenenti alla Parrocchia di Bardonecchia e alle Cappelle, redatto nel 1851 in occasione della vendita all’asta dei medesimi per far fronte alle spese per la ricostruzione della chiesa parrocchiale. In tale data ai sette già elencati si aggiungono i seguenti cinque:
1) «une terre au dit lieu des Grangettes» di 478 tese;
2) «une terre nello stesso luogo» di 187 tese;
3) «une terre en Serre Bertra» di 244 tese;
4) «une terre en Routes des Mottes» di 355 tese;
 5) «une terre sur les maisons des Chaffaux» di 137 tese.
In totale pertanto alla data del 1851 gli appezzamenti di proprietà della Cappella risultavano 12 per una superficie totale di circa 18.605 metri quadri.
Emy Bompard

Celebrazione estiva di San Bartolomeo alle Grange Vernet (24 agosto 2013)

La borgata di montagna delle Grange del Vernet si erge sulle pendici della Melmise, a destra del Vallone del Fréjus, un tempo forse la più popolosa tra le borgate della conca di Bardonecchia. Molte famiglie vi abitavano tutto l’anno, tra di esse i Durand, i Vallory, gli Ambrois, gli Yves, i Sereno, i Bompard. Il Vernet era dotato di un forno per il pane e di una scuola elementare che funzionò fino all’anno 1930 circa e le cui lezioni si svolgevano, a quanto pare, proprio nel locale dello stesso forno: un maestro e uno degli ultimi abitanti a lasciare la borgata fu Antonio Vallory, nonno di Piero e Laura Vallory, mentre l’ultimo insegnante che vi lavorò fu il sig. Bertot, di Pragelato. Il Vernet fu anche l’ultimo villaggio di montagna della conca che si spopolò nel corso del secolo scorso.
Al Vernet sorge la Cappella dedicata al culto di San Bartolomeo, ed essa è l’ultima – in ordine temporale per via del calendario – tappa del ciclo di pellegrinaggi alle Cappelle di montagna della nostra parrocchia, e anche nel 2013 è stata mèta di questa antica e amata tradizione della stagione estiva.

Cappella di S. Bartolomeo al Vernet. [foto R. Chareun]

Le tappe di preghiera hanno animato la salita fino a giungere alla Cappella, dove è stata celebrata la S. Messa da don Franco, con la distribuzione del pane benedetto, quest’anno offerto dalla famiglia Gerard-De Costanzo. Al rito della S. Messa è seguita una dolce e corroborante colazione, con pane e con il miele prodotto dalla famiglia Gerard-André.


Interno Cappella del Vernet. [foto R. Chareun]

L’Archivio Parrocchiale conserva alcuni documenti redatti in francese che ne attestano la fondazione all’anno 1608, e sono corredati da resoconti relativi alle dotazioni della Cappella, facente parte, come tutta la conca di Bardonecchia, della Prevostura di Oulx.
Nel corso di questi ultimi anni la Cappella è stata oggetto di restauri, in particolare nel 2013 è stato posato il nuovo pavimento in legno, per opera di Federico Sereno, Piero Vallory e del sig. Nino.
Al suo interno è possibile ammirare un quadro raffigurante San Bartolomeo, opera del pittore Serafino Geninetti e dono della famiglia Sereno in ricordo della loro Elena. Bartolomeo fu Apostolo e Martire: così chiamato nei Vangeli sinottici, mentre nel Vangelo di Giovanni è chiamato con il nome di Natanaele. L’etimologia del nome Bartolomeo deriva probabilmente dall’aramaico «bar», figlio, e «Talmai», il valoroso, e si identifica così come il patronimico, mentre Natanaele sarebbe, secondo gli studiosi, il nome vero e proprio, ed in ebraico significa «dono di Dio».
Nacque a Cana, in Galilea e prima della chiamata di Gesù era forse un pescatore, ma le fonti storiche relative alla storia della sua vita, delle sue opere e del suo martirio, sono purtroppo confuse e contraddittorie, e spesso si incrociano con eventi leggendari e, dunque, non attendibili.
Secondo il Vangelo di Giovanni, Bartolomeo, forse già appartenente alla cerchia del Battista ed amico di Filippo di Betsaida, fu da quest’ultimo introdotto a Gesù allorquando il Messia si recò in Galilea dopo aver chiamato a sé i primi discepoli. Narra l’Evangelista che Natanaele si dimostrò inizialmente alquanto scettico ma tuttavia, quando giunse al cospetto di Gesù, quest’ultimo ne superò la diffidenza esclamando «Ecco davvero un Israelita in cui non c’è falsità» e narrando un episodio della sua vita che Gesù conosceva grazie alla sua onniscienza: Natanaele ne rimase sgomento, ma invaso dal fervore di aver veramente incontrato il Figlio di Dio. Gesù gli disse, e disse a tutti i presenti:  «Vedrai cose ben più grandi di queste ... vedrete il cielo aperto, e gli angeli di Dio ascendere e discendere sul Figlio dell’Uomo». Tre giorni dopo ci furono le nozze di Cana e anche il nuovo Apostolo assistette alla conversione dell’acqua in vino.  
Da quei momenti Bartolomeo rimase accanto a Gesù fino al termine della sua vita terrena ed alla Pentecoste, l’Assunzione al cielo, ed il suo nome compare negli Atti degli Apostoli nell’elenco dei dodici inviati da Cristo a predicare dopo la sua Risurrezione.
Ma, come scritto in precedenza, dell’attività apostolica di Bartolomeo dopo la Pentecoste non si hanno notizie certe, ne parlano le leggende che lo vogliono missionario e predicatore itinerante in varie regioni del Medio Oriente, e forse fino in India, Azerbaigian, Mesopotamia e Armenia, itinerario durante il quale guarì malati ed ossessi.
Tali narrazioni tradizionali si configurano certamente come un tentativo, un modo per spiegare l’espandersi del Cristianesimo in luoghi anche molto remoti.
Le stesse leggende ne narrano il martirio, crudele e tremendo, avvenuto forse in Siria o in Armenia: in Oriente si ritiene che sia stato crocifisso, mentre nell’Occidente cristiano si tramandarono altre due varianti, quelle della morte per decapitazione o per scuoiamento.
Quest’ultima versione si è affermata nell’arte e nella letteratura ed egli è stato ritratto, tra gli altri, anche da Michelangelo nel Giudizio
Universale della Cappella Sistina. Altrettanto avventurosa è la storia delle sue reliquie, giunte fino in Mesopotamia, una parte trasferita a Lipari e Benevento, successivamente trafugate durante l’invasione saracena per poi ricomparirvi, e traslate nel 999 a Roma nella chiesa di San Bartolomeo all’Isola Tiberina. Alcune reliquie dell’Apostolo furono portate a Francoforte sul Meno, ove sono venerate nel Duomo a lui dedicato. San Bartolomeo è patrono dell’Arcidiocesi di Benevento, di Campobasso-Boiano, Patti e di Francoforte sul Meno, Maastricht e Alm, ed è patrono di macellai, conciatori e rilegatori, sarti e pellicciai.
L’Apostolo Bartolomeo è certamente uno dei padri della Chiesa Orientale e la sua memoria di uomo inizialmente diffidente ma poi capace di donarsi totalmente a una causa ci aiuta a riflettere su come anche noi possiamo riconoscere il Signore nel nostro mondo, così vasto e variegato ma spesso confuso e sfiduciato. Questa è la preghiera che, dal nostro cuore, sale al Cielo dalla Cappella del Vernet, circondata da monti e boschi, ora come nei secoli passati.
Chiara Marino

Fonti e Approfondimenti:
–          Chapelle de Saint Barthelemy 1608, Archivi Parrocchiali.
–          G. Di Pascale, A. Re Bardonecchia e le sue Valli, Tipografia, 1971.
–          AA.VV. Tempi del sacro, tempi dell’uomo, Ed. Centro Culturale Diocesano, Susa, 2007.
–          D. Agasso, G. Pettinati San Bartolomeo Apostolo, Famiglia Cristiana.
–          AA.VV. Enciclopedia Cattolica, Ed. Sansoni, Firenze, 1948-54.
–          O. Ophan Gli Apostoli, Casa Editrice Marietti, Torino, 1950.
–          P. Manns (a cura di) I Santi. Dagli Apostoli al primo Medioevo, Jaka Book, Milano, 1987.

I 100 anni di Enrica Pacchiotti Nervo


La centenaria Enrica Pacchiotti Nervo con i suoi familiari.
[foto coll. F. Pacchiotti]
Quella pubblicata sembra una “normale” foto di festa: un bel gruppo di persone di ogni età, una piccola signora al centro con un mazzo di fiori, il Parroco che con divide un momento di gioia, vissuto nella sua chiesa. In realtà, ben di rado don Franco avrà partecipato ad una festa così: infatti la signora con i fiori, circondata dalla sua numerosa famiglia, è Enrica Pacchiotti Nervo che ha compiuto, il 21 ottobre 2013, 100 anni vissuti ancora nel pieno delle capacità, tanto che è stata lei stessa ad organizzare, fino nei dettagli (per esempio la scelta del menu per il pranzo al ristorante) i momenti di condivisione per il suo genetliaco.
Il primo momento è stato lunedì 21 ottobre: il Parroco ha celebrato una S. Messa di ringraziamento nella “sua” Cappella, affiancata alla casa: la chiesetta di Maria Ausiliatrice che vede la signora Enrica ancora oggi, quotidianamente, raccolta nella preghiera del Rosario. Al termine, un dono singolare: la copia del Certificato di Battesimo che don Franco ha estratto dagli Archivi Parrocchiali. Un goloso rinfresco in casa, con un’originale e buonissima torta, ha riunito tante amiche attorno alla centenaria e ai suoi figli.
Il secondo momento di festa, sabato 26 ottobre, ha visto insieme una trentina di persone tra figli, nipoti e pro nipotini e le famiglie dei tre figli del fratello Marcello, legatissimi alla loro “zia Enrica”. Nella S. Messa, celebrata nella chiesa parrocchiale di S. Ippolito, il Parroco ha accennato ai tanti cambiamenti storici e politici, culturali e tecnologici, medici e religiosi che gli occhi della signora Enrica hanno visto, sottolineando che ben poche persone hanno conosciuto 10 Papi... E a questo punto, una bella e apprezzatissima sorpresa: don Franco ha letto un telegramma di auguri e la Benedizione apostolica, inviata alla festeggiata, molto commossa, da Papa Francesco. Poi una riflessione più intima: l’esempio che Enrica ha dato e dà a tutti noi nella fedeltà alla partecipazione alla S. Messa e alla preghiera quotidiana, nell’accoglienza disponibile a tutti, sempre, nella generosità verso chi ha più bisogno. Infatti non c’è stato alcun regalo personale, per i 100 anni della signora Enrica che ha chiesto, al posto, un’offerta per un missionario che opera in Bolivia.
C’è proprio tanto da imparare da questa lunga vita dono di Dio!
F.P.B.

Il dott. Tito Sensini ha chiuso il suo ambulatorio
La notizia circa l’imminenza del suo pensionamento l’ho avuta attraverso una inattesa telefonata che la signora Sensini volle premurosamente e cordialmente farmi in una mattinata di fine ottobre: «Desideravo informarla, prima che lo venisse a sapere in altro modo, che mio marito, con il prossimo 1º novembre, andrà in pensione – mi disse – in quanto, in questi giorni, l’Inps ha accolto la sua domanda».
Confido che, in quel momento, ho provato dispiacere, come, in passato, lo avevo similmente provato, prima per il dott. Massara, poi per il dott. Allemand, che erano stati i miei medici curanti. Ci si affeziona al proprio medico di famiglia e quando giunge per lui l’età pensionabile, questo, è vissuto dai pazienti, se posso azzardare un esempio, come la partenza di un amico che, dopo tanti anni, decide di andare ad abitare altrove. Vi è del dispiacere.
Ci eravamo rispettivamente conosciuti meglio, quando, ai tempi della malattia di mia mamma, veniva spesso in casa parrocchiale, per visitarla, curarla e a dare i suoi consigli medici. In quel contesto ho scoperto la sua schiettezza, la franchezza e anche quella parte del suo carattere che ha sempre favorito in lui una certa riservatezza, il non apparire nelle cose. Mi aveva sempre incuriosito il suo nome Tito, abbastanza raro. Il nome di un famoso Imperatore Romano ma che, personalmente, ho sempre abbinato, forse per mia “deformazione professionale”, al nome di uno dei più tenaci collaboratori di San Paolo che, assieme a Barnaba, l’aveva accompagnato nel Viaggi Missionari, Nel Nuovo Testamento vi sono due Lettere pastorali indirizzate dall’Apostolo all’amico Tito. Il dott. Tito Sensini continuerà a vivere a Bardonecchia, potrò, e potremo, pur sempre, incontrarlo e chiamarlo “dottore”, ma sarà diverso.
L’ho, in questo contesto, sentito, telefonicamente, in questi giorni e ho capito che, adesso che è in pensione e l’impostazione delle giornate e della vita sono diverse, gli mancano i suoi pazienti, l’ambulatorio, le visite a casa, le tante persone che lo cercavano per le cure, le ricette, le medicine.
Potrà, indubbiamente, impostare il futuro con maggiore elasticità e disponibilità di tempo, come ha affermato in una intervista a “La Valsusa”: «Una parte di me è contenta, posso progettare le cose che amo fare, leggere, viaggiare, andare al cinema e al teatro e, soprattutto, godermi il mio nipotino Ludovico... ».
Il dott. Sensini, dopo il Liceo Massimo D’Azeglio a Torino, aveva frequentato la Facoltà di medicina all’Università di Torino e discusso la tesi a Pavia, dove si era laureato nel 1978. Aveva, fin da subito, iniziato la professione medica, per un breve periodo presso la Clinica Neurologica di Torino, poi, per un anno e mezzo, all’ospedale di Susa; è seguita la Guardia Medica e dal 1981 medico di famiglia a Bardonecchia, in un primo tempo con l’ambulatorio aperto in quella che era la vecchia “Casa Medica”, ora Villaggio Olimpico e, in seguito, nello studio di Viale Callet, fino al 31 ottobre 2013.
Grazie, dott. Sensini. Si goda la meritata pensione e l’affetto della consorte Marisa, di Matteo, Giovanna e del piccolo Ludovico!
d.F.T.

L’uomo della Sindone

Il Circolo Culturale “Dino Ariasetto”, del quale Maria Teresa Vivino è Presidente, con il patrocinio del Comune di Bardonecchia e del Club dei Cento Aps, sabato 25 maggio 2013, nel corso di una ricca cerimonia tenuta al Palazzo delle Feste, ha premiato le poesie presentate alla 2ª edizione del Concorso Internazionale di Poesia e narrativa “Dino Ariasetto”.
La poesia prima classificata della sezione religiosa – valutate dalla Commissione composta da Maria Fiorenza Verde e Rosella Barantani – è “L’uomo della Sindone” di Walter Giuseppe Milani di Druento.
(Di fronte alla serenità che emana dal volto dell’Uomo della Sindone mi sono sorpreso in una domanda non scontata: l’iniziale “Chi sei?” è diventata “Chi sono io, per porre questa domanda?” W.G.M.)




  

Di fronte a Te,
immerso in greve silenzio;
domande mute
rimbombano nell’anima.
Intimo colloquio di spiriti
che inseguono una risposta,
una verità assurdamente vera.
Chi sei?
Arcano segreto
nasconde quel volto di pace. Chi sei?
Dietro le palpebre chiuse
i tuoi occhi mi interrogano.
Tu mi conosci da sempre,
hai pietà della mia miseria;
lo sento.
“Io sono l’Amore assoluto,
l’amore di un mondo
di uguali-diversi,
perché diverso è ogni uomo,
eppur così uguale.
Io sono l’Amore,
io sono quel che tu pensi io sia...
Ma Tu...
Chi sei?”.

“Il silenzio degli eroi”
Il Maresciallo Tacchino, un sopravvissuto al campo tedesco di Sandbostel

Il silenzio degli eroi” è il titolo di un libro, un libro che fa riflettere, specie in relazione al 27 gennaio, data proclamata alcuni anni fa dalle Nazioni Unite, come “Giorno della Memoria”. Il libro è stato scritto da Giovanni Tacchino, bardonecchiese da cinquantacinque anni, ma originario di Montaldeo in provincia di Alessandria. Fu uno dei 750.000 militari italiani deportati nei campi di concentramento tedeschi subito dopo l’8 settembre 1943, data in cui venne firmato l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati. Un giorno che per le giovani reclute italiane segnò una triste parentesi di vita durata circa due anni, in quanto dopo la firma, non vennero date precise disposizioni sul futuro dei soldati italiani. Cosicché, in balia di se stessi, furono catturati dai tedeschi, che, in gran segreto, stavano preparando l’Operazione Alarico per invadere l’Italia.
Il giovanissimo soldato Tacchino, appena diciottenne, trascorse due terribili anni nel Nord della Germania, cambiando ben tre lager, subendo privazioni e umiliazioni, fino alla liberazione da parte del Comando Alleato, avvenuta nell’agosto 1945.
Oggi Giovanni Tacchino ha 89 anni. Dopo i campi di concentramento venne arruolato in Polizia e  nel 1986 fu congedato dopo circa quarant’anni di servizio con il grado di Maresciallo di Prima Classe. Se non fosse per un fastidioso morbo di parkinson l’arzillo pensionato gode di buona salute, coccolato dalle figlie e dai nipotini, nella sua casa bardonecchiese.

A sinistra: il Maresciallo Giovanni Tacchino con la medaglia d’oro della Presidenza della Repubblica consegnatagli nel 2009. A destra: le baracche del campo di concentramento di Sandbostel.

Due anni fa, spronato da tanti amici, decide di prendere in mano una penna ed iniziare a scrivere ciò che ricordava di quel passato, con l’intenzione di dedicarlo alle generazioni future.
Il lettore del 2013 rimane colpito dalla narrazione, così ben dettagliata e molto toccante. A distanza di settant’anni i giorni, vissuti in quei due anni, sono rimasti impressi nella memoria dell’ex soldato, come un marchio indelebile.
Ma Giovanni Tacchino, nonostante la crudeltà conosciuta e subita, non serba rancore, anzi tra le pagine si percepisce alcune volte anche un fondo di bontà, che scaturisce dall’animo di alcune persone incontrate sul suo cammino. Purtroppo dopo mesi di denutrizione e freddo l’ex soldato contrasse una brutta pleurite, quasi guarita del tutto grazie alle cure, prodigate da un capo tedesco! Fu molto turbato, invece, dal comportamento della Croce Rossa Internazionale che non ha mai assistito nei lager questi poveri IMI (Militari Italiani Internati), perché non classificati prigionieri di guerra. Una denominazione ribadita, poi, dall’Organizzazione Internazionale per l’Emigrazione. Il Maresciallo Tacchino, infatti, inoltrò nel 1950 a detto ente una richiesta di indennizzo per il lavoro coatto svolto nei lager. Richiesta negata sia allora che nel recente 2001. Nelle sue memorie cita, però, con grande benevolenza l’attuale Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che riconoscendo le sofferenze subite, con decreto del 2008, consegnò nel 2009 agli aventi diritto le prime Medaglie d’Onore, di cui una troneggia nel salotto bardonecchiese..
Il libro, pubblicato da “Cultura e dintorni Editore”, è stato presentato al Palazzo delle Feste sabato 25 gennaio 2014, in occasione del Giorno della Memoria, alla presenza del Sindaco Roberto Borgis e di numerosi bardonecchiesi convenuti a rendere omaggio a questo eroe, “rimasto per tanti anni nel silenzio”.
Luisa Maletto

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Consapevole della mia vocazione cristiana, io rinnovo oggi nelle tue mani, o Maria, gli impegni del mio Battesimo. Rinuncio a Satana, alle sue seduzioni, alle sue opere, e mi consacro a Gesù Cristo per portare con lui la mia croce nella fedeltà di ogni giorno alla volontà del Padre. Alla presenza di tutta la Chiesa ti riconosco per mia madre e sovrana. A te offro e consacro la mia persona, la mia vita e il valore delle mie buone opere, passate, presenti e future. Disponi di me e di quanto mi appartiene alla maggior gloria di Dio, nel tempo e nell’eternità. Amen.
PAPA FRANCESCO
(“Atto di consacrazione a Cristo per mezzo di Maria”, compiuto dal Papa domenica 13 ottobre 2013, nell’anniversario dell’ultima apparizione di Fatima dell’anno 1917)

Il Pé du Plan rivive.
Un gruppo di residenti racconta, su facebook

Continua il viaggio nel mondo dei ricordi sulla pagina facebook del Pé du Plan, il Borgo Nuovo bardonecchiese! Foto storiche che ricordano vestiti dell’epoca, il passaggio del Duce, attività, ma anche ricordi di scuola in “bianco e nero”. Una pagina in cui far conoscere ai giovani quelle che erano le attività presenti nel borgo ora scomparse, ricorda Odilia Gally con un suo post sulla pagina «( ...) domani lunedì è giorno di bucato, nel nostro borgo posizionato nell’incrocio tra via Garibaldi e via Medail c’era un Bacias (lavatoio) in legno con due grosse vasche, il lunedì mattina molto presto si prenotava il lavatoio mettendo un asciugamano bianco sul trave ciò dimostrava la precedenza per sciacquare la biancheria che la sera prima era stata lavata nella pentola gigante con la lisciva e messa a bollire sulla stufa, la liscivos (pentolone) aveva in mezzo un tubo dove passava l’acqua bollente che si riversava nuovamente sulla biancheria. Era un prototipo della lavatrice. Il giorno successivo si andava a sciacquare alla fontana e la centrifuga era a mano, cioè ci si metteva uno per lato delle lenzuola e si girava la tela uno a destra e uno a sinistra, è chiaro che l’acqua era corrente e fredda e si iniziava sciacquando prima nella seconda vasca e poi nella prima, bello era la cordialità e le chiacchiere che si facevano trovandosi pur lavorando», e Bruna Maria Giacoma Ghello fa un appello: «Vorrei tanto che le persone che abitano ora questo posto bellissimo parlassero delle cose positive, e credetemi ce ne sono state tante io ad esempio nel mio piccolo tenevo dei cavalli nel giardino la signora Odilia e sua figlia ne potrebbero parlare è stato un periodo meraviglioso vivo e bello, e poi c’è stata una fioraia che era la sig.ra Maria Gay, come non se ne può parlare una donna meravigliosa. Non credo che tutto sia finito così nel sotto passaggio vi prego raccontate le vostre storie amici!».
Una pagina facebook che vive da circa un anno.
Ma cos’è il Pé du Plan? Ce lo spiega bene con un suo post Adriana Chiabrando: «Se chiudo gli occhi, ripensando alla mia infanzia, rivedo il mio Borgo com’era negli anni ’50-’60... Vorrei farlo “vedere” anche ai miei compaesani più giovani, in un’immaginaria passeggiata – spero di riuscirci – e mi piacerebbe che i “più grandi” mi correggessero quando, nella confusione dei ricordi lontani, ho riportato delle immagini sbagliate o dimenticato qualche particolare... Il “Pé du Plan” è il nome in patois del Borgo Nuovo, che si estende nella parte pianeggiante della conca di Bardonecchia, dove esisteva un lago, prosciugato – pare – dai Saraceni, agli inizi del X sec. d.C., e che si sviluppò nel 1800, quando iniziò la costruzione del traforo del Fréjus. La parte più bassa del Pé du Plan, isolata per anni da un passaggio a livello quasi sempre chiuso e poi dal sottopassaggio costruito alla fine degli anni ’60, è un piccolo Borgo a sé stante, il Borgo del Sottopasso, appunto, il “nostro Borgo”. All’incrocio di Via Susa con la strada che saliva a Millaures e la strada del Vecchio Mulino, un ponte di ferro attraversava il torrente Rochemolles che, pochi metri più avanti, confluisce nel torrente La Rhô – a cui si è unito il torrente Melezet, dopo aver attraversato la Valle Stretta – dando origine alla Dora Riparia, il fiume della Val di Susa. Immaginiamo di oltrepassare il ponte: ci troviamo alla fine di Via Medail, la via più importante di Bardonecchia che da qui sale fino al Borgo Vecchio, attraversando tutta la cittadina (poche persone, eccetto i residenti – comunque – sanno che questa via continua oltre l’attuale sottopassaggio). Eppure è proprio qui che comincia il Pé du Plan».
Per saperne di più si può curiosare sulla pagina facebook: Pé du Plan Sottopasso. Maria Teresa Vivino

Il “Giro d’Italia” a Bardonecchia
18 maggio 2013: sotto pioggia e gelo la tappa CervèreBardonecchia!
La calda accoglienza bardonecchiese al Giro non è stata sufficiente a riscaldare fisicamente le numerose persone giunte, anche da molto lontano (qualcuno addirittura dagli Stati Uniti) per le pessime condizioni meteo. Tanto freddo, pioggia, qualche fiocco di neve sullo Jafferau, sabato 18 maggio. Un Giro proprio sfortunato, sin dall’inizio sotto la pioggia. Tutte le manifestazioni collaterali si sono svolte però secondo programma: gli sbandieratori di Susa, gli intagliatori del legno, il folletto dei fornelli, che ha intrattenuto i bambini, i gruppi musicali Parenaperde e Bandaradan. Ma certamente difficile è stato rimanere fermi per ore, in attesa di quei pochi secondi che solitamente riserva il passaggio dei corridori.
Lo scambio di doni tra i Sindaci 
di Cervère e Bardonecchia.
Il transito in Via Medail, avvenuto all’incirca alle 17, è stato molto applaudito, anche con focosi incoraggiamenti. In quel momento erano in testa due corridori, Luca Paolini e Sonny Colbrelli, che si sono lasciati raggiungere, poi, quasi all’ultimo chilometro sulla salita dello Jafferau, da Mauro Santambrogio, vincitore di tappa, e da Vincenzo Nibali, maglia rosa. Al traguardo, dopo la premiazione alla presenza del Sindaco Roberto Borgis, i martoriati corridori, dopo ben cinque ore di pioggia, hanno cercato di scaldarsi, alcuni non riuscivano nemmeno a parlare, altri avevano le mani congelate. Tra gli organizzatori qualcuno ha dichiarato che su numerosi Giri d’Italia del passato non si ricordava un Giro così flagellato, come questo, dal meteo.
Tra le innumerevoli iniziative, quella del maestro Eugenio Bolley, l’artista locale, che, dopo aver donato al Comune la sua bicicletta stilizzata, collocata come benvenuto all’ingresso del paese, ha messo in vendita a fini benefici le tazze firmate e decorate con la sua bicicletta. Il ricavato delle vendite verrà interamente devoluto all’Associazione “Porte Aperte” che si interessa di assistere i cristiani perseguitati in diversi Paesi del mondo e di altre realtà disagiate.
Molto apprezzato da tutti il concorso a premi per le più belle vetrine, addobbate per l’evento. L’iniziativa, promossa dall’Associazione Commercianti, dal Consorzio e dal Comune, si è conclusa nel primo pomeriggio allo Jafferau, molto prima dell’arrivo dei corridori. Oltre quaranta esercenti si sono sfidati nella gara. Ma tra loro c’erano anche dei semplici privati che hanno addobbato o il loro balcone o il portone d’ingresso. Una giuria ne ha poi scelti tre, a cui è stata consegnata una targa ricordo. Il primo premio è andato a Scarabòcc, un negozio di candele decorative, la cui creatrice Claudia ha vinto anche la maglia rosa originale; il secondo alla pasticceria Ugetti, che ad ogni festività propone nelle sue vetrine sculture in cioccolato per ricordare l’evento, il terzo al Bar Garage che ha addobbato tutta la vetrina con magliette originali, una bicicletta del nonno, pagine storiche di giornale, un manifesto degli anni ’50, in cui si intravede Bartali al Galibier.
La Piazza Statuto, quartier generale di tappa, è stata completamente allestita con bancarelle di sponsor.
Eugenio Bolley con il bozzetto da lui realizzato della bicicletta (lunghezza m. 3,67 altezza m. 2,09) posizionata sulla rotonda all’ingresso di Bardonecchia, adornata di fiori e arricchita dei tre colori della nostra bandiera.
Tra le curiosità: in Via Medail si è visto perfino un cane con pelo rosa. La padrona ha precisato che l’aveva tinto con il colore naturale della barbabietola.
Anche in serata il freddo e la pioggia non hanno dato tregua, condizionando molto il prosieguo della festa organizzata dalla Carovana del Giro in Via Medail.
Luisa Maletto
Mauro Santambrogio vince davanti a Nibali sullo Jafferau.

Camosci all’ora del tè

Mentre rivedevo sullo schermo del computer le foto dell’ultimo inverno a Bardonecchia, il display ricordava la data degli scatti: venticinque febbraio duemilatredici.
Nonostante la brutta stagione fosse agli sgoccioli, non smetteva di nevicare; così che il calendario era smentito dal paesaggio pienamente invernale. Finalmente approfittai di un pomeriggio di tregua per ciaspolare.
Passo dopo passo affondavo dentro alla polvere bianca quasi senza far rumore, e mi resi conto che tutto all’intorno era rigido; persino gli uccelli tacevano.
Finché quell’atmosfera grigiastra che aveva cristallizzato la conca della Rhô in una patina di galaverna venne scossa.
Folate di vento ridettero vita all’ambiente, i tronchi presero a oscillare cigolando lamentosamente e i rami si libravano elastici rimbalzando verso l’alto; così si liberavano dal peso della neve che tonfava sordamente, ricoprendo ogni traccia del terreno sottostante.
Il cielo ripulito lasciava spazio alla luce, mentre i boschi verso le Tre Croci si frantumavano in inquiete pennellate d’argento. A distanza, i profili di quelle piante apparivano ricami, non quelli che adornano maglioni e camicette, ma segni di mondi fuori dalla nostra portata; come il pulviscolo celeste e oro sollevato dalle folate gelide che avevano beffato la nuvolaglia.
Di nuovo mi guardai intorno; ora la neve incastrata fra i rami, trasformatasi in ghiaccio, tentava di sciogliersi alle prime occhiate di sole, prendendo a gocciolare lentamente. Notai piccoli fori profondi dentro al manto candido; erano le impronte dei camosci che avevano attraversato il sentiero. Loro seguono direzioni diverse dalle nostre. Li cercavo insistentemente con lo sguardo nel fitto del bosco e nelle radure ariose; tuttavia ero consapevole che, in realtà, non si avvistano quasi mai.
La carrareccia sale impercettibilmente prima di ridiscendere verso la Rhô. Mentre il fogliame estivo cela il villaggio, in inverno esso compare all’improvviso tra i fusti degli alberi.
Dallo sfondo oscuro dietro le baite emergeva un filare di betulle; si presentava come uno scheletro di luce tanto bianca da essere irreale. Temevo che quegli alberi non avrebbero resistito al gelo della notte, tanto apparivano caduchi nel loro splendore.
Presto essi caddero nell’ombra, insieme alle poche case e alla chiesina.
Più su verso le creste, tra neve e roccia resisteva una striscia di luce giallastra. Sembrava eterna, ma anch’essa finì in ombra come i due o tre sorbi in primo piano. Se il verde li nasconde durante la bella stagione, in quel tardo pomeriggio i rami nudi, deformati e ingobbiti dalle tempeste, apparivano un caos inestricabile di nodi, opera di uno scultore impazzito.
In mezzo ad essi vedevo impigliarsi le lunghe chiome di Sansone, d’altra parte mi trovavo in un set perfetto per replicare uno scenario biblico.
L’ambiente si fece ancora più drammatico quando il vento prese a sollevare intorno a sé mulinelli di neve e foglie secche, un frangersi di qualcosa che quasi non esiste tanto è lieve. Tutto ammonticchiato su un lato della strada innevata, quel fogliame prendeva consistenza e tendeva a cancellare il percorso. Solo allora mi resi conto che persino il segnavia rosso e marrone era sepolto sotto la neve, quasi ad ammonire: «I sentieri sono scomparsi, dove credi di andare? Torna a casa!».
Ma io continuavo a fotografare le macchie di luce che insistevano sui cuscini immacolati. Quella crosta appena bagnata da un tocco di calore si accendeva, sotto gli ultimi raggi, di miriadi di puntini come stelline. Abbagliava, quella strana via lattea, come se il cielo si fosse rovesciato sulla terra e, uniti assieme, avessero formato un tutt’uno. Forse la discesa di Gesù nel mondo e il suo ritorno al Padre possono essere rappresentati da immagini come questa.
«Qui c’è un camoscio!», dissi fra me mentre seguivo sul computer la sequenza delle foto.
L’avevo ripreso senza accorgermene; in effetti la sua sagoma si notava a stento essendo ormai avvolta nelle ombre bluastre.
Curioso di vederlo meglio lo ingrandii... i programmi di fotoritocco permettono questo e altro. Allora mi accorsi che il suo sguardo trascurava la nuvolaglia arancio e oro cosparsa come un velo verso le montagne colme di neve sovrastanti il valico della Rhô. Certo non era interessato a quel confine che lasciava presagire altre montagne, nuove vallate.
Senza curarsi minimamente della mia presenza, l’animale appariva assorto in se stesso.
In estate il camoscio è in grado di percorrere decine di chilometri al giorno, ma allora il suo universo iniziava e terminava in quella radura contesa tra luce e buio. Tranquillo sostava nel suo mondo dove ogni minimo particolare era regolato alla perfezione, cominciando dalle estremità.
Lui non aveva i piedi freddi come me.
Mentre scendevo a valle il vento si era nuovamente acquietato, ma gli erano bastate poche ore per indurire la neve, così i ramponi delle ciaspole rompevano rumorosamente la crosta. Quell’andare pesante mi rendeva consapevole di disturbare il bosco che si stava preparando ai silenzi della notte. Così la foresta restava sulle sue ed io a mia volta mi sentivo estraneo ad essa. Allungai il passo poiché quella separazione mi rattristava.
«Fortunatamente – pensavo – non mi trovo troppo lontano dall’asfalto e dalle relative comodità, in primo luogo il riscaldamento dell’automobile».
In quel momento belati improvvisi di spavento e disperazione dirottarono il mio sguardo e i miei pensieri verso quattro o cinque piccoli camosci dal pelo lungo e chiaro, fortemente spaventati al mio apparire. Subito comparvero le madri, tornate indietro precipitosamente incontro ai figli.
Poi ho visto quelle mamme riprendere il controllo della situazione, protendersi col loro corpo verso i piccoli tenendoli accuratamente a monte, pelo contro pelo. Nel frattempo salivano in diagonale verso dirupi inaccessibili.
Ciò nonostante i capri non smettevano di piagnucolare anche se in definitiva quel minuscolo branco non fuggiva, ma si ritirava con un certo stile. In pochi momenti scomparvero al riparo di un costone. Tornato il silenzio, incredulo notai il musetto di una camoscia riaffacciarsi tra le rocce; teneva il capo inclinato per scrutarmi meglio. Curiosità femminile o piuttosto muto rimprovero verso un intruso che, inconsapevolmente, aveva disturbato la prole?
In un attimo la sua mossa inattesa aveva ristabilito armonia tra me, il bosco e i suoi abitanti: anzi, con tutto il creato. Ora la foresta non era più estranea donandomi una quiete interiore che ha ricordato le parole di alcuni Pontefici.
Da essi Dio è stato presentato non solo Paterno (come vuole la tradizione) ma, contemporaneamente, Materno. Sentii che l’intera vicenda del Cristianesimo, dalla nascita di Gesù sulla terra al suo sacrificio, porta con sé segni inconfondibili di amore materno.
Nel comportamento delle mamme camoscie ho intravisto uno scorcio della presenza attiva di Dio. Per Lui cielo e terra sono un unico universo, come un’ora prima alla Rhô. Fede cristiana significa certezza che la sua mano tocchi ogni vicenda umana e si preoccupi anche di ogni minimo respiro nel bosco.
Guido Alimento


In estate il camoscio è in grado di percorrere decine di chilometri al giorno... e di addentrarsi verso dirupi inaccessibili. [foto G. Alimento]



L’attacco delle Sette religiose

E’ necessario vigilare attentamente e sapere congedare con carità e fermezza coloro che periodicamente suonano il campanello delle nostre case o fermano le persone al mercato e per le strade, con l’intento di propagandare le loro convinzioni religiose. Nei casi in cui non si è sufficientemente accorti, solitamente profittando di qualche momento di fragilità interiore dovuta ai problemi e alle sofferenze della vita, come dopo avere perduto una persona cara, oppure per necessità economiche, non è raro che qualcuno, gradualmente, si lasci convincere e cada nella rete delle Sette religiose che, quasi sempre, cancellano gradatamente la libertà personale portando al fanatismo religioso.
Tra le Sette, quella che utilizza una propaganda martellante è quella dei Testimoni di Geova. Per trovare notizie si può consultare la recente “Enciclopedia delle religioni in Italia” redatta dal CESNUR (Centro Studi sulle nuove religioni), opera di Massimo Introvigne e Pier Luigi Zoccatelli (Ed. Elledici, alle pagg. 452-457).
Ai fini di questo articolo basti ricordare che in Italia il primo gruppo nacque nel 1903 presso Pinerolo, e che la crescita degli aderenti in Italia inizia soprattutto dopo il 1946.
«Il geovismo è un grande pericolo per la fede cattolica: provoca danni anche in chi, accettando le conversazioni, non entrerà mai nella Setta. Chi aderisce ai Testimoni di Geova non diventa soltanto “eretico” ma addirittura “apostata” della fede cattolica e cristiana. I Testimoni di Geova sono apparentemente ben preparati su argomenti a loro congeniali – che poi sono sempre i medesimi – mentre i cristiani, solitamente, non lo sono ed esposti a tutti i pericoli. È sconsigliabile entrare in dialogo che in realtà è poi sempre un monologo e congedarli con gentilezza e fermezza» (da “I TdG”, di G. Crocetti, EDB, pagg. 285-286).
Gli argomenti loro congeniali, usando i quali si fanno spazio negli animi degli ignari uditori, riguardano il “vero” nome di Dio, la negazione della Trinità, la persona di Gesù che, pur chiamato Figlio di Dio, rimane una persona, l’uomo non ha un’anima è un essere animato che alla morte dorme nella tomba, affermano che Gesù non morì sulla croce ma sopra un palo e altri temi, ancora, che qui non possono essere affrontati. Tutti, da loro “provati” con citazioni bibliche estrapolate da una Bibbia erroneamente tradotta e, pian piano, marcando sempre più che la Chiesa e i preti «vi hanno mentito».

Chi volesse può approfondire personalmente e rendersi conto, con uno studio storico-scientifico serio, come stanno le cose, dal punto di vista cattolico, utilizzando il Blog della Parrocchia:

Le torri di Carta dei TESTIMONI DI GEOVA